GIULIO ROMANO
In occasione delle celebrazioni mantovane in memoria di Giulio, la Diocesi ritiene opportuno riproporre al visitatore della Cattedrale, con le nuove tecnologie digitali, la GALLERIA dei dipinti delle navate periferiche grazie all’ausilio della realtà aumentata. Questo permette di poter intuire il progetto pittorico di Giulio Romano e del cardinale Gonzaga. Le tele realizzate a metà del 1500 sono dieci; di esse, otto sono pervenute a noi; una è perduta dal sec. XVII e una seconda, trafugata al tempo della Rivoluzione francese, si trova ora nel museo civico di Caen (Normandia). Delle otto pale, ancora presenti a Mantova, tre oggi ornano i primi tre altari della Cattedrale (entrando a sinistra); due sono collocate nella cappella del Santissimo Sacramento (l’ultima entrando a sinistra); una è conservata nella sagrestia della Cattedrale, un’altra è temporaneamente esposta alla mostra in Palazzo Ducale, una terza si può ammirare al Museo diocesano di Mantova.
ORARI DI VISITA DEL PERCORSO DI GIULIO ROMANO IN DUOMO
Lunedi, martedi, mercoledì, venerdi, sabato:
dalle 9,30 alle 17,45 (orario continuato)
Giovedi:
dalle 12.00 alle 17,45
La domenica e nei giorni festivi:
solo nel pomeriggio dalle 13,30 alle 17,45.
Visita serale:
ogni venerdì dalle 19.00 alle 22,45.
Nel caso di celebrazioni di funerali negli orari sopra indicati, la visita sarà momentaneamente sospesa La visita è gratuita. Se deisderate potete contribuire alle spese di allestimento mettendo una vostra offerta libera nelle apposite cassette già predisposte .
GIULIO ROMANO PER LA CHIESA DI MANTOVA
Giulio nasce a Roma (1492 o 1499). Allievo di Raffaello, alla morte del maestro ne eredita per testamento la bottega e le commissioni già avviate nell’Urbe, completandone i lavori e distinguendosi come artista di talento.
Nel 1521 viene raggiunto da un primo invito a Mantova da parte di Federico II Gonzaga. Nella città gonzaghesca Giulio giunge, accompagnato da Baldassarre Castiglione, ambasciatore dei Gonzaga a Roma, il 22 ottobre 1524. Diventa cittadino mantovano nel 1526 e nello stesso anno viene nominato vicario di corte, prefetto delle fabbriche dei Gonzaga, superiore delle strade urbane.
Artista di corte attento nell’interpretare e soddisfare le esigenze del committente, Giulio esprime a Mantova il proprio talento di architetto, disegnatore e pittore, trovandovi grande libertà espressiva e ampio riconoscimento delle sue capacità.
Con la Chiesa mantovana Giulio Romano si confronta progettando monumenti funebri e ideando apparati decorativi o pale d’altare, spesso realizzati dai suoi allievi, in numerosi edifici sacri di città e del contado. Fra le sue opere si segnalano: nel santuario di Santa Maria delle Grazie il monumento Castiglioni (commissionato nel 1523); in San Domenico il monumento Strozzi (1529-1533); in Sant’Andrea la cappella di San Sebastiano (1534), quella di Santo Stefano o Petrozzani (lacerti 1536ca.) e quella di San Longino o Boschetti (1536); in Santa Maria del Carmine il monumento Andreasi (1534); in Santa Maria della Presentazione il monumento Cantelmi (1536).
I monumenti Strozzi, Andreasi e Cantelmi ora si trovano nella basilica di Sant’Andrea.
Non solo Federico II Gonzaga, ma anche Ercole Gonzaga è committente di Giulio.
Per il Cardinale il genio romano lavora all’apparato decorativo della villa vescovile di Quingentole, luogo di villeggiatura per i vescovi di Mantova, al cui complesso edilizio si interviene con lavori di rinnovamento tra il 1536 e il 1546.
Del 1540 è l’affidamento a Giulio, assistito da Battista da Covo, dei lavori di ristrutturazione e decorazione del palazzo vescovile, ubicato sulla sinistra del duomo, dove oggi si trova il Seminario diocesano (1825).
È con le grandi architetture sacre realizzate nel quinto decennio del Cinquecento (basilica di San Benedetto Polirone e duomo di Mantova) che si delinea una svolta nella progettazione dell’architettura in rapporto con il preesistente e della decorazione in rapporto con la superficie architettonica, mutamento con il quale gli elementi decorativi passano in secondo piano rispetto al progetto architettonico.
Sia nella ristrutturazione dell’antica chiesa monastica di San Benedetto in Polirone, patrocinata dall’abate Gregorio Cortese a partire dal 1539, sia nella ricostruzione del duomo di Mantova, lesionato da un incendio nell’aprile del 1545, Giulio progetta i due edifici sacri dando prova di alta maestria nell’adattare le strutture preesistenti medievali, romaniche e gotiche, alla nuova trasformazione.
Nel duomo mantovano l’ispirazione più evidente, certamente condivisa con il committente Ercole, è data dall’antico San Pietro costantiniano di Roma, a quel tempo in progressiva demolizione per essere sostituito con le forme dell’attuale basilica vaticana. Passando da tre a cinque navate e mantenendo la medesima altezza per i colonnati laterali, il Pippi gioca sulla forma delle coperture, esaltando la forza prospettica dello spazio. In un impianto architettonico di severa sobrietà, ideato in un anno e mezzo – l’ultimo della sua vita –, Giulio stupisce, non rinunciando alle soluzioni compositive impreviste in variazione ai modelli classici.
Giulio muore nella sua casa in contrada Unicorno (oggi via Carlo Poma) a Mantova il 1° novembre 1546 e viene sepolto nella vicina chiesa di San Barnaba.
LUOGHI GIULIESCHI
La concattedrale di Sant’Andrea, capolavoro dell’Alberti, accoglie, in alcune cappelle, importanti testimonianze dell’arte di Giulio Romano, segno della novità giuliesca che si è inserita in una struttura ormai “antica”, che a tutti gli effetti era un grande cantiere ancora in corso. Sono almeno tre le cappelle che conservano tracce della cultura giuliesca.
Cappella di San Sebastiano o di Sant’Anna (lato di destra entrando, seconda piccola cappella). Il titolo di Sant’Anna si deve ad un dipinto che era presente raffigurante Sant’Anna e altri Santi, attribuito dalle fonti variamente al Brusasorci o al Parmigianino, ritirato dalla famiglia Susani che ebbe nel XIX il giuspatronato dello spazio sacro. Ma il titolo di San Sebastiano deriva dagli affreschi laterali, che raffigurano due momenti del martirio del santo. I dipinti murali sono attribuiti a Rinaldo Mantovano (sec. XVI) già dalle fonti ottocentesche, ovvero ad uno dei più assidui collaboratori del Pippi all’interno dei cantieri cittadini. Nelle raffigurazioni è da notare l’attenzione per le architetture (un arco trionfale e un edificio circolare sorretto da colonne salomoniche), nonché la fisicità dei personaggi e l’atteggiamento ironico di alcune figure.
Cappella di San Longino (lato di destra, terza grande cappella) È la terza delle cappelle di grandi dimensioni sul lato destro, dedicata a San Longino e già della famiglia Boschetti, che ne ebbe il patronato e la fece decorare a partire dal 1531. La pala è una copia antica della tavola oggi esposta al Louvre, raffigurante La Madonna col Bambino, San Giuseppe, San Longino, San Giovanni evangelista e i pastori adoranti. Il dipinto giunse nelle collezioni dei Gonzaga e venne alienato con la vendita del 1628. A Giulio Romano si deve l’invenzione degli affreschi alle pareti, realizzati da Rinaldo Mantovano. Le cornici dei dipinti murali sono decorate con simboli della passione, in accordo con le due grandi scene contenute, ovvero La Crocifissione, sulla parete a destra, e Il ritrovamento del Preziosissimo Sangue di Gesù, a sinistra. Particolarmente drammatica la scena della crocifissione, con il cielo squarciato, le croci ruotate in direzione della pala d’altare e, in basso, Longino, ormai convertito, tiene nella mano sinistra una coppa nella quale raccoglie il sangue del Redentore. Alla parete opposta la scena del ritrovamento della Reliquia, avvenuto a Mantova nel 1048: tra la folla si riconosce il vescovo Marciano, il cieco veggente Adalberto, Beatrice di Canossa inginocchiata con le mani giunte. In cielo, tra le nubi, l’apostolo Andrea che apparve al beato Adalberto suggerendogli la collocazione della Reliquia. Esula l’aspetto storico artistico, ma giova ricordare che in questa cappella sono le sepolture di San Longino, San Gregorio Nazianzeno (Dottore e Padre della Chiesa) e del beato Adalberto.
Cappella di Santo Stefano (transetto di sinistra, lato di sinistra) Già patronato della famiglia Petrozzani, in particolare fu legata al primicerio Tullo Petrozzani (Mantova, 1538 – 1609) è oggi popolata da numerosi monumenti sepolcrali provenienti dalle varie chiese mantovane soppresse e demolite nel tardo Settecento. Tra questi spicca il monumento Strozzi, costituito da un’arca sulla quale giace Pietro, e retta da quattro cariatidi derivate, tramite copie intermedie, da quelle dell’Eretteo. Per molto tempo il mausoleo è stato attribuito a Giulio Romano, prima di trovare una documentata paternità in Bernardino Germani (sec. XVI). La decorazione a fresco, che è stata legata ad Antonio Maria Viani (1560ca.-1630), rivela, invero, uno strato inferiore evidentemente giuliesco (probabilmente, ancora una volta, potrebbe essere Rinaldo Mantovano): si scorge, infatti, il busto di un San Longino e tracce che alludono a Sant’Andrea, oltre a lacerti dei nomi dei due Santi.
All’inizio del Cinquecento il tempio del grande complesso monastico del Polirone doveva mostrarsi quale una grande chiesa goticheggiante risalente al secolo precedente, sulla base di un antico edificio romanico. Già nel corso del primo decennio del secolo alcuni lasciti indicano la volontà di rifare ex novo il luogo di culto; la situazione entrò poi in una fase di stallo, fino all’agosto 1538 quando una bolla emessa da papa Paolo III dispensava il monastero dalla riedificazione della chiesa e concedeva il restauro di quella antica. L’inizio dei lavori viene collocato dal cronista Benedetto Luchino al 1539, su progetto di Giulio Romano e con Giovan Battista Covo (1486ca. – Mantova 1546) come capocantiere, o al 1540 secondo un documento nel quale si fa riferimento ad un aumento della provvigione per il Pippi. Deus ex machina fu l’abate Gregorio Cortese (1480ca.-1548), colto umanista ed esperto d’arte e architettura, vero motore del rinnovamento del complesso religioso. Anche in questo caso Giulio Romano, volente o nolente, dovette misurarsi con le preesistenze, facendo diventare virtù tale limite. Di fatto l’antica chiesa viene in parte inglobata nel nuovo edificio e parte mimetizzata. Rimangono ad esempio la partitura in tre campate, le volte a crociera ogivale sulle campate e il tiburio in corrispondenza del presbiterio. La navata ha misure irregolari: l’abilità di Giulio Romano nel rinnovare il tempio consta nell’annullare visivamente le differenze tra le proporzioni delle prime tre campate con l’uso della serliana, utilizzando le vecchie colonne con capitelli pseudocorinzi approntate nel 1498 per la nuova biblioteca, mai realizzata; trasforma inoltre i pilastri della chiesa gotica in paraste corinzie d’ordine gigante che reggono una trabeazione a risalti; mimetizza le forme delle volte e del tiburio con le decorazioni a fresco e a stucco. Le navate laterali, caratterizzate da pilastri e lesene corinzie, sono fiancheggiate dalle cappelle (di maggiori dimensioni quelle corrispondenti alle prime tre campate) e sono raccordate attorno al coro monastico, chiuso, da un deambulatorio coperto da volte a crociera. Radialmente a quest’ultimo si sviluppano cinque cappelle, come era fin dall’età romanica seguendo il modello di Cluny III. Anche la facciata antica è mantenuta, ma a questa si sovrappone un vestibolo caratterizzato da un ordine gigante di paraste corinzie, con tre arconate di accesso in corrispondenza degli assi principali. Al di sopra fa bella mostra di sé la loggia, dalle forme mistilinee, edificata nella prima metà del Settecento. Originariamente Giulio Romano aveva previsto al di sopra della trabeazione tre timpani in corrispondenza delle arcate, e semitimpani alle estremità. Anche il fianco destro del tempio mostra un intervento spregiudicato e capace: se la travata ritmica continua su questo lato in sintonia con la fronte del vestibolo, la metrica continuamente varia nel modulo minore, proiettando all’esterno l’irregolarità spaziale interna. Per quanto riguarda la decorazione basti qui ribadire come Vasari nel 1568 affermasse che «coi suoi disegni [di Giulio Romano] fu abbellita tutta la chiesa di pitture e tavole bellissime». Lo stesso Pippi il 3 gennaio 1541 si era impegnato a dipingere «de sua mano» e per 500 scudi d’oro, sei ancone: la pala dell’altare maggiore e cinque per le cappelle, da eseguirsi entro due anni. Venne realizzato soltanto il San Pietro e i discepoli salvati dalle acque, opera che oggi si ritiene perduta, nota attraverso la copia antica presente nella basilica. A Giulio si deve in particolare una serie di disegni per le pale. Tre vennero realizzate nel 1544 da Fermo Ghisoni (1505-1575). Ad Anselmo Guazzi venne invece pagata la decorazione a fresco della chiesa, mentre un altro pittore non meglio noto collaborò agli affreschi della chiesa con le storie di Santi, e alla realizzazione degli ottagoni della sagrestia. Tra le varie scoperte vanno segnalati i festoni con frutta e putti che si sviluppano lungo la navata, su disegno giuliesco. Tali decorazioni sono state scialbate e poi ulteriormente nascoste dalle scure tele settecentesche del pittore veronese Paolo Zimegoli; sarebbe auspicabile un intervento di ripristino di tali dipinti murali, anche con la ricollocazione dei quadri, recuperando la luce e la spazialità giuliesca.
Dal 14 settembre 2019 al 6 gennaio 2020 il Refettorio Grande e la basilica di San Benedetto Po accolgono la mostra Il Cinquecento a Polirone. Da Correggio a Giulio Romano. Dipinti, pale d’altare, sculture, documenti, codici miniati e antichi paramenti racconteranno il rinnovamento del complesso religioso nel XVI secolo. Memorabile il ritorno del monumentale Cenacolo di Girolamo Bonsignori (1472-1529) ad oltre due secoli dal furto napoleonico.
Il santuario suburbano di Mantova, affascinante nelle sue linee gotiche e denso di opere d’arte assai pregevoli (tra dipinti e statue), nonché luogo in cui la presenza di un plurisecolare coccodrillo impagliato ribadisce la vicinanza tra il tempio e le Kunst und Wunderkammer, rivela alcuni interventi giulieschi di particolare interesse. Anzitutto la Cappella Castiglioni, la prima sul lato destro entrando, magniloquente nello spazio e nella decorazione. Qui venne inumato il celebre umanista Baldesar, che la volle edificata, testando il 16 settembre 1523, alla vigilia della sua partenza al seguito di Federico II Gonzaga per una campagna contro la Francia. Con questo documento destinò seicento ducati per la costruzione della propria cappella funeraria nella chiesa francescana di Santa Maria delle Grazie a Curtatone: «quam capellam ornari mandavit secundum et prout ordinabit Julius Romanus pictor, in qua capella ipse d. testator mandavit et ordinavit et voluit construi et fieri unum sepulchrum secundum et prout ordinabit etiam dictus Julius Romanus, in quo sepulchro reponi volui iussit et ordinavit cadaver suum predictum ac etiam q. m.ce et generose D. Ippolite Taurelle olim eius uxoris dilectissime». Castiglione morì a Toledo il 2 febbraio 1529 e venne sepolto provvisoriamente nella locale cattedrale. Il corpo venne traslato a Grazie entro il 1530 e riposto nella tomba ove erano state sistemate le spoglie della moglie Ippolita Torelli, morta diciannovenne nel 1520 e già sepolta in Sant’Agnese a Mantova. Lo spazio si imposta su un vano cubico, similmente alla cappella Chigi di Raffaello in Santa Maria del Popolo a Roma. Per ogni lato un arco che poggia su colonne, realizzando così una complessa soluzione d’angolo. Alla parete nord è l’altare, sul quale troneggia la pala raffigurante la Madonna col Bambino e i santi Bonaventura e Francesco, realizzata probabilmente da Fermo Ghisoni (1505-1575) su disegno di Giulio Romano (oggi a Weimar). Al lato est si accampa il magniloquente monumento sepolcrale, in marmo di Verona, con il sarcofago contenuto da due bassi pilastri sui quali sono incise le epigrafi di Baldesar (dettata da Pietro Bembo) e della moglie, e che reggono una piramide a sette gradini. In cima trionfa la statua in stucco del Cristo risorto. Il riferimento potrebbe essere quello del Mausoleo di Alicarnasso come descritto da Vitruvio (De Architectura, VII, 12) e da Plinio il Vecchio (Naturalis Historia, XXXVI, 30). L’ispirazione, inoltre, potrebbe giungere anche dal catafalco eretto nel 1519 nella chiesa di San Francesco in Mantova per Francesco II Gonzaga, come dal monumento che Raffaello pensò sempre per il quarto marchese di Mantova. È stato notato il ricco simbolismo relativo alla struttura del monumento: il riferimento è al trionfo dell’eternità sul tempo, rappresentato dalla sovrapposizione della piramide al sarcofago, con i sette ripiani che stabiliscono un legame tra terra e cielo. Inoltre, la piramide è la perfezione, cui l’uomo approda con la pratica delle sette virtù (i gradini); attraverso questo percorso l’anima vivrà tra i beati, al cospetto del Risorto. L’intervento di Giulio Romano si lega anche al presbiterio del Santuario che, a dire il vero, mostra ai nostri giorni una veste composita. Se la struttura è ancora quella più antica, ad abside poligonale, l’aspetto interno mostra gli esiti della ristrutturazione effettuata al tempo del Pippi, della sistemazione voluta da Maria Gonzaga nel Seicento e della debarocchizzazione operata con il restauro effettuato nel 1928. Ora le pareti appaiono spoglie, ma furono interamente affrescate nel Cinquecento (sopravvivono alcuni brani che lasciano intuire almeno una Stimmatizzazione di San Francesco). Più in alto un fregio con girali vegetali e putti, di sapore manierista ma ampiamente ricostruito durante i restauri novecenteschi, mentre la volta è suddivisa in scomparti geometrici tracciati con finte cornici. Nel catino absidale spiccano cinque lunette a unghie, di cui quattro sono affrescate con effigi di personaggi dell’Antico Testamento (e tra questi il profeta Daniele, per il quale esiste un disegno preparatorio conservato all’Albertina di Vienna), mentre in quella centrale è raffigurato il Padre Eterno che incorona la Madonna (ampiamente di restauro, visto che qui era stata aperta una finestra circolare). Nell’abside, inoltre, si conservava, fino a qualche decennio fa, l’originaria pala dell’Assunta, con i ritratti di Ferrante Gonzaga (1507-1577) e della moglie Isabella di Capua (1510-1559), committenti della tela, posti in abysso. Furono i signori di Guastalla, infatti, a commissionare la risistemazione dello spazio. Il dipinto, realizzato da Fermo Ghisoni su ispirazione di un disegno di Giulio Romano oggi conservato al Louvre, è purtroppo stato sistemato, in tempi relativamente recenti, nella sagrestia Sagrestia. Vecchia, in attesa di restauro e della corretta ricollocazione al centro dell’abside.
sagrestia.