Se non ci fosse il cristianesimo nel vocabolario dell’umanità verrebbe a mancare la parola decisiva. Si potrebbero fare discorsi sublimi di sapienza, di erudizione filosofica, umanistica, ma mancherebbe la parola decisiva alla grammatica dell’uomo: la “parola della Croce” come dice san Paolo ai Corinzi (1Cor 1,18).
La croce è una parola necessaria perché ci sia rivelato il Dio vero. È molto facile sbagliarsi nella rappresentazione di Dio. Il peccato più radicale e pericoloso è sporcare, sfalsare l’immagine di Dio. Il grande peccato è far passare per vera l’immagine di un Dio falso, che non è il Dio vivente, ma un idolo costruito dalle paure dell’uomo, dal suo senso di colpa, dalla sua sete di farsi giustizia e vendetta quando è offeso. Proiettando su Dio il nostro animo malato, ha potuto passare un immaginario religioso avvelenato che al posto di avvicinare a Dio tiene lontani da lui. L’immagine distorta più frequente è quella di un Dio offeso e risentito che punisce l’uomo peccatore che si è ribellato a Lui. E gode nel far pagare il debito – che l’umanità non poteva estinguere – a un uomo innocente e santo quale è stato Gesù. La Maestà Divina è soddisfatta e ricompensata nel suo onore dalle sofferenze patite da Gesù sulla Croce, il mediatore tra Dio e l’uomo. Questa interpretazione pone un dissidio interno alla vita stessa di Dio. Sconfessa le parole di Gesù riguardo al suo rapporto con Dio Padre: “bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre, e come il Padre mi ha comandato, così io agisco” (Gv 14,31). E contraddice anche il motivo per cui Dio ha inviato il Figlio nel mondo: “ha tanto amato il mondo da donare il Figlio unigenito perché chiunque crede non vada perduto, ma abbia la vita eterna”. Non la condanna dei peccatori, ma la loro salvezza: questo è l’obiettivo che Dio persegue sulla Croce.
San Pietro, nella sua prima lettera, dice che siamo stati comprati a caro prezzo, valiamo il sangue di Cristo (1Pt 1,18-19). Si tratta, allora, di custodire inalterata l’eredità preziosissima della redenzione. “Di non far mancare al mondo la parola della croce. Dio è entrato nella tragedia dell’uomo, perché l’uomo non vada perduto. Lo ha riscattato con il mezzo scandalosamente povero e debole della croce. Per sapere chi sia Dio devo inginocchiarmi ai piedi della croce” (Karl Rahner).
Gesù dice a Nicodemo che “nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo”. Tra i due termini, cielo e terra, Dio e uomo, che tutto dice lontanissimi, incomunicabili, estranei, le parole del Vangelo indicano il punto di incontro: Gesù è il disceso innalzato, al tempo stesso Figlio dell’uomo e Figlio del Padre. Cristo si è abbassato, scrive Paolo, fino alla morte di croce. A differenza di Adamo, che in una impennata di orgogliosa presunzione di essere pari a Dio ha tradito la sua vocazione di essere l’immagine somigliante di Dio, Gesù non si è auto-esaltato. Si è auto-umiliato, svuotando sé stesso, facendosi obbediente, fino alla morte e alla morte di croce. Ha servito la missione per cui il Padre lo ha mandato. È il servo povero dai mezzi poveri: umiltà, sopportazione, consegna estrema a Dio lasciando decidere a lui i tempi e i modi in cui avrebbe risuscitato il suo Messia. “Per questo Dio lo ha esaltato”, costituendolo Signore del cielo e della terra. Gesù muore da figlio, non da eroe. A esaltarlo ci ha pensato il Padre.
L’evangelista Giovanni parla di Cristo innalzato sulla croce. L’ora dell’innalzamento sulla croce coincide con la massima manifestazione della gloria di Dio. Il potere, lo splendore, la verità di Dio si sono mostrati nella massima umiliazione della croce.
La croce ha una sua fecondità paradossale, ha un potere attrattivo: “Io, quando sarò esaltato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12, 32). Quale attrazione può esercitare una croce? Nella cultura del tempo era lo strumento di ignominia riservato ai delinquenti peggiori che avevano perso nome e dignità, reietti dagli uomini e maledetti da Dio. Come può attirare il volto sfigurato del servo sofferente che non ha bellezza né apparenza, uomo dei dolori che ben conosce il partire? Eppure Gesù ha detto parole sicure: attirerò tutti a me. Sulla croce l’eccesso del male combacia con la dismisura dell’amore, l’assurdità e il potere della violenza coincide con la gratuità e la potenza del dono fino allo spreco dell’ultima goccia di sangue. Così si rivela il principio attrattivo della bellezza di Dio.
Il Verbo si è abbreviato nel Crocifisso, l’amore divino si è condensato nella sillaba più ruvida e più sublime della sofferenza di Dio. “Il Dio impassibile ha patito una passione di amore”, diceva Origene, intravedendo, sulla soglia del mistero, una follia di amore che è come una contrazione del massimo di amore in un grido di sofferenza che nulla toglie alle perfezioni divine, anzi le esalta. È il massimo dell’estasi del divino, della capacità di Dio di uscire da sé stesso per diventare una cosa sola con la creatura che ama, trasformando il patire dell’uomo nel compatire divino. Dio è un abisso di paternità, dicono i Padri della Chiesa. Ne percepiamo la vertigine dall’alto della Croce.
Dopo che Gesù si è disteso su di essa, da patibolo la croce si è trasformata nel seggio regale di Dio. È il simbolo del potere trasformante di Dio: da strumento di vergogna a simbolo di esaltazione. È il trofeo della vittoria gloriosa di Cristo e il segno che apparirà in cielo ad annunciare a tutti la seconda venuta del Signore Gesù nella gloria.
I cristiani delle origini hanno prodotto una quantità notevole di simboli, eppure cercavano di evitare la rappresentazione della croce. Questo riserbo a mostrare lo “spettacolo” della croce (Lc 23,48) fu superato grazie al pellegrinaggio di Sant’Elena e alla decisione dell’imperatore Costantino di erigere sul Golgota una grande croce d’oro. Da allora la croce è il simbolo principale e universale del cristianesimo. Perché tanta cautela all’inizio con la Croce?
Se ripercorriamo la storia dell’arte cristiana notiamo due tipi fondamentali di rappresentazione della croce. Li indichiamo, per convenzione, il tipo antico e il tipo moderno. Il tipo antico, che risale all’arte musiva delle antiche basiliche e ai crocifissi di epoca romanica, esprime gli elementi gloriosi della vittoria, della maestà regale del Cristo trafitto. La croce “nuda”, senza il crocifisso, è decorata di gemme preziose, sullo sfondo vi è un cielo stellato, spesso è accompagnata dalla scritta Salus mundi (“Salvezza del mondo”), come si vede in un celebre mosaico di Ravenna. Nei crocifissi lignei dell’arte romanica, il Cristo troneggia vittorioso sulla croce, indossa abiti regali e sacerdotali, gli occhi sono aperti e rivolti verso il Cielo (Dio Padre), lo sguardo disteso e mite, senza contrazioni di sofferenza, irraggiante maestà e misericordia, non più coronato di spine, ma di gemme preziose. È la traduzione in pittura del versetto del salmo 95 “Dio ha regnato dal legno” (regnavit Deus a ligno). Il tipo antico della Croce recepisce la teologia giovannea dell’innalzamento e quella paolina della esaltazione. La trasfigurazione del dolore in gioia e della tenebra in luce esprime la forza attrattiva della Pasqua: “Io, quando sarò esaltato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32).
Il tipo moderno, invece, inizia con l’arte gotica e si impone sempre di più, fino a diventare il modo ordinario di raffigurare il crocifisso negli ultimi secoli. Esemplare è la crocifissione di Matthias Grünewald nell’Altare di Isenheim, ma anche i crocifissi di Velasquez e di Salvador Dalì esaltano la quantità smisurata del dolore sovrumano di Gesù in Croce: il corpo, interamente piagato, si contorce diventando tutt’uno con il legno, il capo sfigurato e grondante di sangue agonizza sotto un fascio di spine.
Quali dei due modelli rappresentativi del crocifisso è più fedele alla verità evangelica della Passione? Entrambi evidenziano un aspetto vero del mistero. Il tipo moderno risente della devozione all’umanità corporea di Gesù diffusa nel medioevo occidentale soprattutto dai movimenti francescani che diffusero l’amore del poverello di Assisi per i dolori di Gesù in croce. Lo spettacolo straziante della Passione del più innocente degli uomini è gettato in faccia ai fedeli nella sua cruda realtà. La croce appare anzitutto come lo strumento del supplizio, la causa della morte, la somma di tutte le forme di dolore patite dal Cristo: il dolore fisico, la sofferenza morale, l’angoscia psichica, lo scarto sociale, l’abbandono nella morte.
Il tipo antico, al contrario, guarda alla croce a partire dai suoi effetti salvifici finali: la riconciliazione, la pace, la glorificazione di Dio, la riapertura del Paradiso e il dono della vita eterna riconquistata per Adamo e la sua discendenza. È la croce che produce la gloria, secondo san Giovanni. È la croce che Paolo definisce “gloria” o “vanto” del credente. È la croce contemplata dall’alto, da Dio.
Bisogna unire i due approcci (che nell’arte esprimono due sensibilità teologiche e spirituali) e riscoprire la venerazione della Croce gloriosa. La festa liturgica che celebriamo si chiama “esaltazione” della Croce in quanto celebra proprio l’aspetto “glorificante e vivificante” della croce. In origine commemorava l’inaugurazione delle due basiliche costantiniane, una sul Golgota e una sul sepolcro di Cristo, nell’anno 325. Successivamente, nel secolo VII, si unì la commemorazione di un altro avvenimento legato alla croce gloriosa, cioè la vittoria cristiana sui persiani che portò al recupero delle reliquie della croce e al loro ritorno trionfale in Gerusalemme. Ora la festa ha un significato proprio non autonomo anche se distinto rispetto alla venerazione del Venerdì Santo. Le due feste si interpretano e si completano nella loro reciprocità: non c’è vittoria senza sacrificio, Cristo è “vincitore perché vittima” (Agostino, Confessioni 10,43,69), ma non c’è sacrificio offerto a Dio che non sia consolato e riempito della gloria dello Spirito. La festa dell’Esaltazione è la celebrazione gioiosa del mistero della passione e in particolare dell’albero della croce che da strumento di ignominia e di supplizio Cristo ha trasformato in strumento di salvezza.
Oggi la Parola della Croce non ci è annunciata nel suo aspetto di sofferenza, di dura necessità della vita, o anche di via per cui seguire Cristo, ma nel suo aspetto glorioso, come motivo di vanto, non di pianto. Purtroppo, l’aver dissociato i due aspetti di sofferenza e di gloria, il lato umano e quello divino della Croce, la morte dalla risurrezione, ha fatto un cattivo servizio alla fede e alla proposta cristiana.
Se all’inizio i cristiani furono molto attenti a non fraintendere questo simbolo perché non finisse per diventare un’esaltazione della sofferenza fisica, lungo i secoli l’attenzione si è quasi esclusivamente concentrata sul supplizio del Calvario, ingenerando tanta allergia verso un certo modo “devoto” di intendere la sofferenza, il dolore, l’accettazione delle croci, un “dolorismo” cristiano che ha reso tristi e poco attrattivi i testimoni dell’Evangelo che invece è la lieta notizia del Crocifisso Risorto.
Come la meditazione sulla Croce Gloriosa può ispirare la missione e il servizio della Compagnia del Preziosissimo Sangue di Nostro Signore nella nostra Chiesa mantovana? Dicevamo che i cristiani devono consegnare al mondo odierno il Verbum Crucis. Ma dobbiamo anzitutto custodire questa “parola”. La Compagnia ha la missione di custodire la Reliquia Insigne del Preziosissimo Sangue che è il frutto glorioso della redenzione. Cujus una stilla salvum fácere, canta uno dei cinque inni eucaristici attribuiti a san Tommaso d’Aquino: una sola goccia del tuo sangue può rendere salvo tutto il mondo da ogni peccato.
Se osservata con occhi superficiali e meramente per i suoi aspetti esteriori, una Confraternita può esaurire la sua ragion d’essere nei contorni formali di una semplice associazione, con i soci, lo statuto, una direzione, un’azione pubblica. La Compagnia, in quanto associazione pubblica di fedeli, è una realtà ecclesiale, una manifestazione peculiare della chiesa diocesana di Mantova. Il senso e lo scopo della vostra appartenenza alla Compagnia è di crescere in ecclesialità, in partecipazione attiva a missionaria alla vita della nostra Chiesa locale la cui storia è intrecciata con la Reliquia del Sangue.
Il potere del sangue di Gesù è quello di ricapitolare nell’unità l’umanità dilaniata dalle divisioni, dall’inimicizia. Queste tentazioni le viviamo anche nei nostri contesti di vita e la Parola della Croce ci allena a un esercizio costante di crescita nella parola costruttiva che esalta il bene, il positivo, piuttosto che assecondare la parola banale, tendenziosa, svalutativa.
La missione della Compagnia è anzitutto una missione spirituale. Un confratello e una consorella misurano il significato della loro adesione alla Compagnia anzitutto a partire dai frutti spirituali che questo cammino spirituale contribuisce a portare nella loro vita personale e comunitaria. Se vi fa diventare più cristiani, più conformi alla Croce pasquale di Gesù, allora la Compagnia conferma la sua ragion d’essere. Tutte le cose vive evolvono, al pari delle età umane. Anche la Compagnia ha un suo cammino di maturazione verso fasi adulte, più consapevoli della missione, dell’identità, della appartenenza, del servizio.
San Paolo dice che in tutte le prove della vita noi siamo più che vincitori (“stravincitori”: Rom 8,37). Il Signore ci aiuti ad affrontare le prove con l’animo del vincitore, non secondo criteri mondani, ma pasquali. Portiamo anche noi nel nostro corpo i segni della croce di Gesù, con fierezza spirituale. Come recita un inno antico, la croce vivificante è porta del Paradiso, sostegno dei fedeli, muro fortificato della Chiesa, arma invincibile, nemica dei demoni, gloria dei martiri, vero ornamento dei santi, porto di salvezza.